Durante il 62esimo incontro tra la cultura LatinoAmericana e quella Italiana, dal titolo ” Poesia di due continenti” la poetessa e critica Alessandra Paganardi ha regalato all’auditorio multietnico lì intervenuto, la sua visione di Poesia; lo riportiamo qui integralmente, ringraziando l’Associazione Paradigma e il suo Presidente Karlos Welk per aver organizzato un Convegno di così ampio respiro, all’interno della Regione Lombardia.
“Vorrei riflettere sull’evento di oggi, avendo esperienza di altri progetti internazionali di cui vi parlerò. Prima fra tutti, attivo dal 1976: la rivista e le edizioni bilingui Gradiva, fondate dal poeta prof- Luigi Fontanella negli USA per diffondere la poesia italiana nei paesi anglofoni. Innanzitutto: la poesia non è, forse non è mai stata, un fatto essenzialmente circoscritto alle frontiere territoriali. Certo alle origini e nel Trecento, se parliamo dell’Italia, poteva essere molto importante rivendicare la geografia della letteratura italiana in quanto scrigno della lingua nazionale nascente, attraverso la consacrazione operata dai nostri grandissimi autori delle origini; più tardi in quanto heimat di un’identità idiomatica extravagante da salvare, es nella letteratura dialettale dal tardo Rinascimento in poi (ricordo sempre lo studio di Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana , uscito nel 1967 e sempre significativo). Ma proprio in quanto, per dirla con Dionisotti, la letteratura segue sempre la storia e la geografia, e poiché oggi siamo in un mondo completamente diverso, “globalizzato”, forse è arrivato il momento di superare il concetto di letteratura “nazionale”. Ben se ne sono accorti i testi scolastici, che fin dalle scuole secondarie impongono ormai ai giovanissimi studenti una visione perlomeno europea, se non mondiale, del fenomeno letterario, poetico in particolare. (E non dimentichiamo che anche il Rinascimento fu un fenomeno europeo). Il lavoro di Gradiva, ad esempio, va da anni in questa direzione con il superamento delle barriere oceaniche e con una divulgazione capillare di molti poeti, perfino fra quelli non ancora storicizzati. DIFFONDERE POESIA OLTRE I CONFINI, DUNQUE, ANCHE PER SVELARE IL DNA DELLA POESIA STESSA: ESSERE UN MESSAGGIO UNIVERSALE, di cui la lingua “nazionale” è segno ed espressione, ma può diventare anche limite.
Ma perché scrivere poesia? Perché leggere poesia? Credo sia sempre utile partire dalla propria esperienza. Fin dalle scuole elementari, mi piaceva costruire frasi che avessero un ritmo bello da sentire e nello stesso tempo si facessero intendere senza ambiguità. Era per me un divertimento, come vestire le Barbie o inventare storie da rappresentare. Ma non era un gioco qualsiasi. Era una specie di compito, di dovere, o meglio: era un compito che nessuna maestra mi imponeva, ma che proveniva da uno strano richiamo interno. Credo di aver confusamente compreso l’imperativo categorico kantiano molto prima di studiarlo. Avevo forse intuito il concetto di “Beruf”, compito: per un poeta il compito è trasformare la vita in immagini che abbiano nello stesso tempo una forma simbolica, logica e musicale. Ezra Pound ha parlato di melopea, fanopea, logopea. Verso la prima superiore arrivarono frasi in forma di verso, immagini che non riconoscevo più come semplicemente prese in prestito dai poeti che già allora amavo (Penna, Sbarbaro, Pavese e Neruda, oltre ai già citati), ma che arrivavano da una zona profonda interna: erano mie. Anche qui, la logica del Beruf. Nessuno mi costringeva, mi costringevo io a mettere in forma quei messaggi confusi arrivati da chissà dove. E ne facevo endecasillabi, settenari (versi che non ho mai più abbandonato), mi esercitavo nelle catene di metafore come avrei fatto in una palestra. Mi concentravo a cercare immagini da un’idea iniziale, le accoglievo, le sistemavo in versi che abbellivo continuamente: non per pura volontà esornativa, ma per esprimere meglio quei nodi incerti e aggrovigliati di connessioni analogiche, che sarebbero altrimenti andati perduti. Da allora ho capito che per svolgere bene un compito basta spostare il centro di gravità e riviverlo dall’interno, rendendolo almeno in parte simile a quel primigenio richiamo. Ho poi continuato a scrivere, obbedendo alla classificazione un po’ schematica di Benedetto Croce su chi scrive versi prima e dopo i vent’anni. Ho scelto un mestiere, l’insegnamento (o forse lui ha scelto me) che nella realtà mi costringe a stare con i giovani, ma che eccezionalmente mi fa riconoscere il mio stesso « daimon » in qualcuno. L’ultima scoperta è un ex studente che vive a Parigi, si chiama Rafael Marescotti e sono certa che sarà una delle voci più interessanti del secondo 900.
Tornando alla poesia e alla poetica: è molto semplice, credo. La poetica di ognuno di noi, che scriviamo, è contenuta in nuce (come il famoso homunculus) in quel primo apparire aurorale del Beruf. Per me, fin dall’inizio, la scrittura (e poi in particolare la poesia) serviva ad amplificare il senso e il valore delle parole (cioè del mondo) al di là della chiacchiera e del commercio quotidiano. Serviva, in altre parole, a godersi di più la vita, che è per gran parte parola, comunicazione. Pensiamo e parliamo attraverso categorie, concetti, e le categorie si esprimono a parole. Ma dovendo utilizzare i concetti per soddisfare bisogni primari e sempre meno primari, perdiamo quasi tutto l’elemento espressivo della parola (quella che Jacobson ha definito la funzione emotiva) e con esso gran parte dell’elemento referenziale. La poesia ha un compito altissimo e veramente civile, risignificare il mondo: e chissà che la parola non sia nata proprio con questa complessità e non si sia stati noi, con il progresso della tecnologia e il perfezionamento della vita materiale, a ridurla a referenzialità impoverita, che conduce a continui fraintendimenti (lo vediamo sui social!!!!) e infine fa riemergere la conculcata espressività sotto forma di sfogo, volgarità, emotika e stickers, sciatta neolingua (e su questo preferisco non dire altro). Sotto c’è l’incapacità progressiva di dire, es-primere, quasi una preoccupante forma di neo-afasia, che sta diventando la triste normalità. Questa ricerca sulla parola originaria (os come oralità, come pienezza di significato) è portata avanti da anni dalla rivista veronese “Anterem”, ma ha una storia eccellente: pensiamo agli studi danteschi di Mandelstam: fra le più belle pagine critiche mai scritte, dove la “critica” non si limita all’analisi testuale – come fin troppo bene hanno fatto lo strutturalismo europeo e la scuola americana del “New criticism” – ma va alle radici vere e profonde del fare poetico.
La poesia può nascere da qualunque stimolo. Sempre da un’occasione puntuale, diceva Montale. Ma non è mai sfogo, è forma, proprio perché (qualunque sia la poetica dell’autore) il primo compito ontologico della poesia è risignificare il mondo. Compito che, a seconda delle epoche e delle poetiche, si declina come conservazione, rivoluzione (penso alle varie avanguardie e neoavanguardie, che hanno avuto un compito importantissimo, anche se vanno superate, come tutti i provvedimenti d’emergenza…); riflessione sul già visto e non abbastanza compreso, come la luce per gli impressionisti. Può nascere da un sogno, da una paura, da un fallimento, da un dolore o da un amore (il vecchio Saba se ne intendeva); perfino dall’odio, dall’indignazione, da una pulsione animale. Diventa però poesia quando trova, in quel particolare temperamento individuale, in quel preciso tempo, in quel preciso luogo, la strada per diventare verso, cioè (non dimentichiamolo) DIREZIONE. Per diventare, come appunto scriveva Pound, sintesi perfetta di logos, immagine e musica. La parola, a differenza di altre modalità espressive, possiede tutto questo già in se stessa: perciò il verso ha una struttura in sé armonica, non melodica, e non necessita d’altro. E’ uno strumento unico ed eccezionale, eppure è il primo che abbiamo avuto in mano; e ci appartiene a pieno titolo come esseri pensanti, umani. Qualcuno si prefigge, nel corso della vita e senza trascurare i tanti doveri eteroimposti, il compito di imparare a suonarlo. Questo qualcuno sono i poeti, questo compito è la poesia e questa scuola non finisce mai. La poesia, diceva Ungaretti, è la “limpida meraviglia di un delirante fermento”. Di questa limpidezza noi siamo, senza superbia ma anche senza false modestie, i piccoli e grandi alchimisti di sempre, da sempre. Con la certezza che la lettura di un verso riuscito non lascia mai il mondo come prima: lo illumina e semina tracce in altri individui, in altre inquietudini. In altri compiti.
Concludo accennando brevemente al servizio reso alla poesia dalla traduzione. Ho già citato Gradiva Publications; vorrei citare altri due progetti culturali che ho la fortuna di conoscere: 1)il centro culturale TINA MODOTTI di Caracas e il suo blog, che pubblica traduzioni in spagnolo di vari poeti contemporanei (sono usciti anche versi tradotti miei) 2) le edizioni bilingui itao-rumene COSMOPOLI di Editora, dirette dalla poetessa Eliza Macadan per cui è in uscita una mia plaquette che si intitolerà “Il sogno delle lumache”. La traduzione realizza ciò che san Gerolamo chiamava “verbum de verbo exsprimere”, che non significa affatto “tradurre parola per parola” ma l’opposto: significa EX-PREMERE, ricavare il segno, l’index, il famoso “significato”, dal medium originale che è la lingua 1, e “premerlo” come un timbro o uno stampo un medium diverso, che è la lingua 2 e che, con tutti gli scogli del caso, può a volte essere un’occasione per liberare un’espressività (la radice è sempre exprimere!!!) rimasta latente nelle lingua 1. Io stessa ho avuto occasione di rendermene conto dalla traduzione dei miei versi quando riesco a padroneggiare la lingua d’arrivo (purtroppo non il rumeno); a volte la traduzione ex-prime, tira fuori sfumature magari recondite. Far crescere, esaltare, è lo scopo di ogni progetto culturale importante, destinato a durare nel tempo: incontri culturali come quello di oggi ne sono un esempio coraggioso e luminoso.” (Alessandra Paganardi)
L’appuntamento è per l’anno prossimo, sempre in dialogo con due culture fortemente legate tra di loro anche se apparentemente diverse; il ponte è la poesia
Luisa Cozzi