Delineare le sorti della costituzione del senso e del significato nella poesia di Cristina Annino (1941 – 2022), e nell’ultimo e postumo Avatar, non è cosa semplice. Se l’autrice ha attraversato la temperie delle poetiche degli anni Sessanta-Settanta, quelle cioè dell’intransitività della lingua e dei relativi giuochi linguistici (temperie che, come si sa, è legata alla svolta linguistica della filosofia degli anni Venti del Novecento), la sua scrittura resta comunque strettamente agganciata ad un orizzonte di senso. E, nel continuo décalage linguistico si configura come una forma raffinata di depistamento narrativo e di “anamorfosi” letteraria: di situazionismo linguistico ante litteram. Il piano di costruzione di questo senso per il dritto è continuamente fuori dall’immediato intendimento, e la figuralità delle immagini si dà in continui spostamenti ellittici dello spazio letterario.
Il “motore” di questa operazione è senz’altro anche di natura psichica e psicologica, ha come ben evidenziato Daniela Marcheschi nella quarta di copertina del volume, si tratta di una inerenza con il rapporto fra Io e Sé un Sé come un Altro per dirla alla Ricoeur, ma la struttura oggettivante del processo visionario e fantastico, in una coscienza non armonica e scissa, costituisce un tentativo di abreazione di pulsioni e poteri. Inoltre vi è la volontà di contrastare la banalità del quotidiano, lo “spirito di sopraffazione del gregge”, le spinte spersonalizzanti del politicamente corretto e di una Storia ferina.
La possessione che invade il corpo della scrittura si configura, così, come il contraltare luttuoso anche di una ipostasi poetica della caricatura letteraria e, segnatamente, di una modulazione fra ironia e sarcasmo. Ciò di cui la Annino si carica è il fardello di una personificazione sentita come spossessamento, perdita di realtà, ossificazione di significati: fantasmi della libertà. La visionarietà sembra seguire una bi-logica su piani diversi ed ellittici di costellazioni semanticamente non finite.
Non si segue qui una visione alla Blanchot della Letteratura come infinito intrattenimento, ma si persegue un rinvio umanistico in un orizzonte di senso impregiudicato: entro un umanesimo antropologico, come direbbe Daniela Marcheschi che sappia tenere insieme, anche nella scissione, simile e dissimile, il proprio e l’altro, la pulsione e l’intelletto.
La struttura e il dire dichiarativo ed assertivo della poesia di Cristina Annino sono interamente affidate alla frase. Poco spazio è lasciato alla metafora nella tipologia tipica della retorica simbolista-decadente. Come abbiamo già dichiarato, questa frase è sottoposta a continue agglomerazioni di parole-concetto inusuali ed a deformazioni semantiche, che indirizzano piuttosto la metafora verso l’anamorfosi, per una “geometria” e psicologia diverse dello sguardo. Vi è una eterogeneità di regni (minerale, vegetale, animale) e di personificazioni.
I versi di Avatar sono abitati da una divinità laica: la sfaccettatura di un Io che rimescola e deforma continuamente le posizioni e i ruoli. In questo senso, pur nell’estraneità alla trascendenza del divino, emergono esiti di extra-località ed estraneazione dal mondano e riscontri positivi del mito di Narciso, come nel filosofo ucraino del Settecento Hryhorij Savyč Skovoroda. In lui il detto delfico «conosci te stesso» diviene «conosci te stesso perché te stesso è il mondo»: simile è anche l’atteggiamento in merito al mondano in generale. Skovoroda, nel suo Autoepitaffio scrisse: «Il mondo cercò di afferrarmi, ma non mi prese».
Le diverse sembianze di questo dire, le trasformazioni, nell’Annino, scelgono sempre la forma obliqua e il montaggio. Vi sono rimozioni, spostamenti, condensazioni, iperboli, riduzioni, sostituzioni, ibridazioni, accostamenti inusitati di parole e di sensi. Stretto è anche il rapporto con il visuale: l’Annino era anche pittrice, e in lei una scaltrita naïveté e deformazione, contenuti pulsionali ed onirici erano in primo piano. La sfida dell’imperfezione e la misura precisa dell’imperfetto.
In Avatar tipiche e depistanti sono le due dichiarazioni di poetica presenti nelle poesie dei “consigli ad un depresso”. Nel Primo consiglio ad un depresso si legge: «Non dare / i polpacci in pasto alle iene, né / le spalle ai remi della bilancia. Non farti / fregare. Non / essere ebbro e salva il cinghiale tra / i simboli del terreno. Sii sciocco e poi / infame, poi a pezzi com’è la speranza. Furbo, / magari scemo. Magari un giudizio / vero si stende sul labbro chiuso nel / sonno, t’annusa: è il momento più / grave e ti fotte se non l’ingoi. Sii sempre / vago come un affare di nubi». Il tema dell’ingoiare, dell’inglobare, della masticazione, e del cannibalismo, è molto presente nella raccolta sin dai titoli: L’Amantide, La vocalità del dentista, La balena ingoia lo stolto. è questo uno dei temi che insieme ad altri ribalta modi di dire, luoghi comuni in décalage, cioè in una poetica dello sfasamento, dello spiazzamento, dello spostamento. Vi è un continuo ribadire un luogo stando altrove: ironia di maschere e mascheramenti di Spiriti Santi. In un verso dell’Annino si legge: «Chi tra voi è lo Spirito / Santo? In piedi! Allora l’ego d’ognuno / s’alzò, disse “Io”. Parola di verità».
Amedeo Anelli
Questa recensione riprende quella pubblicata sulla rivista «l’immaginazione» n.330, luglio-agosto 2022, Manni Editori e dai consigli di Lettura del Presidio Poetico