Alla foce del Tevere, nell’avvallamento di terra che declina verso il mare, il corpo di un uomo giace a terra, cadavere.
Su quel corpo lo scempio di tutto il male possibile.
Intorno i margini del mondo, un campo da calcio e bilance per la pesa delle anguille, il sibilare del vento fra le baracche e l’umido che arriva dal litorale; pantano e pozze d’acqua allagate dalla luna, luci affogate nel fango.
E’ la notte fra 1 e 2 novembre, la notte di Ognissanti, l’ora dei martiri.
La tradizione narra di un momento, in quella notte, in cui il tempo si assottiglia e la terra trasuda mistero.
Si racconta che nel punto più profondo delle tenebre dove il confine del tempo si fa evanescente, in molto meno di un istante, nel vuoto spalancato sulle ombre, spiriti di altri mondi tornino ad abitare le loro case. E’ in quel momento ed è solo in quell’istante, che negli specchi d’acqua addolciti dalla luna, le anime dei martiri vanno a riflettersi in cerca dei lineamenti dei loro cari, del loro sguardo, di un contatto mortale.
In un copione da melodramma, il destino ha voluto esaltare il senso disperato di una vita con una tragica fine; ha scelto un poeta, tormentato e sublime, nel punto più delicato della sua vita di uomo e l’ha trascinato attraverso la sofferenza alla vita dei martiri.
Poco più in là un ragazzo sfreccia sulla litoranea di Ostia in contromano, morso dal terrore, dalla vergogna o forse da una colpa che non potrà mai più rimettere.
Sopra l’asfalto infiammato dai pneumatici in corsa il cielo ha cambiato colore, adesso ha i riflessi della menzogna. Il buio è un abbraccio bugiardo, senza luna.
L’auto corre e, dietro di lei, incalza il motore di una gazzella dei carabinieri.
Nello specchietto il un volto di un giovane, zigomi alti, occhi grandi ma stretti e una capigliatura riccia, voluminosa e crespa.
Quanto male fa l’anima quando gli viene strappato il corpo?
Seduto alla scrivania, con le braccia conserte, i gomiti puntati sul tavolo e il busto inclinato in avanti, guarda il foglio che esce dalla macchina da scrivere.
E’ totalmente assorto, gli occhi corrono veloci sulla pagina e sembrano trapassarla.
Dalla Lettera 22 meccanica, sdraiato sulle bacchette di ferro esce un foglio, inchiostrato di fresco dal balzare dei tasti. In tutto una quindicina di righe, fitte, che corrono da lato a lato, con i margini dilatati quasi a toccare il rullo; l’interlinea è minima.
Nella stanza c’è ancora l’eco della battitura veloce, furiosa, tanto che il silenzio adesso sembra una pausa musicale.
In quelle righe il cuore di un nuovo progetto, qualcosa di rivoluzionario, forse addirittura di scandaloso. Un lavoro che attende di vedere la luce da tempo; è una idea che ha trovato di recente la voce su quel foglio di carta immacolata ma è antica, un seme custodito per anni.
Mentre legge il pensiero si solleva, come un aquilone che balza da terra e scivola sul vento, è un istante di pura libertà, un respiro a pieni polmoni, il primo vero sorso d’ossigeno.
Ma il sollievo dura poco.
Arriva ancora quella fitta, quel dolore atroce che sfarina il cuore.
All’improvviso l’aquilone, sferzato da un improvviso rovescio d’aria si capovolge, si avvita e precipita a terra. La polvere da qualche giorno offusca il suo orizzonte non sa più come lavare via quella maledetta sensazione.
In un impeto cerca la realtà, guarda l’orologio sulla scrivania, verifica l’ora. Ha un impegno, non proprio un appuntamento, è un invito per una intervista.
Decide di uscire, inutile tergiversare.
Esce di casa e raggiunge l’auto, sente l’aria farsi più fresca con l’imbrunire.
Apre la portiera, entra in auto.
Si abbandona per un momento sul sedile, allunga le gambe e tiene le spalle contro lo schienale, poi si ricompone, raddrizza la schiena e rivolge distrattamente lo sguardo all’immagine riflessa sullo specchietto retrovisore.
Poi la guarda; si guarda.
Con la mano inclina lo specchietto, di sbieco, lo abbassa un po’ e osserva come fosse dietro la macchina da presa.
Si guarda, vede un uomo vigoroso, maturo, con i capelli folti e scuri, ondulati e soffici, portati all’indietro, di lato, e un paio d’occhiali scuri.
Si avvicina, allarga l’inquadratura, l’immagine a poco a poco si dilata, riempie tutto lo spazio; adesso in primo piano ci sono l’attaccatura dei capelli e un paio di occhiali con la montatura in celluloide scura, lenti ambrate.
Così da vicino è cambiato tutto.
Chi è l’uomo che gli sta davanti?
Si guarda, cerca di scovare la rima degli occhi fra i riflessi delle lenti, si osserva come un ispettore in un interrogatorio, riempie l’aria di silenzio e lascia affondare il cuore.
Sa che per non affogare sputerà presto la verità, perché là sotto, sott’acqua, la fame d’aria gli scuce la volontà in bolle d’aria.
Poi si guarda come se il suo sguardo fossero mille occhi su di lui.
Scosta gli occhiali, li fa scivolare sul naso quanto basta, fino a scoprire due crateri neri.
Si guarda.
Resta lì, fermo per qualche momento, cerca di entrare in quelle caverne scure per vederne il fondo ma oggi riesce solo a percepire il catrame della sua solitudine.
Ritorna nel presente, calza bene gli occhiali sul naso, gira la chiave nel cruscotto e avvia l’auto.
Spegne il pensiero per tutto il tragitto, si lascia incantare dalla strada.
Raggiunge il giornalista, amico, risponde alle domande ma non è concentrato e sente d’essere stato poco preciso, detesta l’approssimazione e gli chiede di lasciargli appunti con le risposte abbozzate, vuole riguardarle; gli porterà domani un lavoro ben fatto.
Esce e risale in auto.
Ormai è sera, è ora di cena, guida verso il ristorante dove ha appuntamento con Ninetto e la sua famiglia. Una volta parcheggiata la macchina, sul marciapiede, nel tratto che percorre a piedi per raggiungere il ristorante sente di nuovo il peso di mille sguardi su di lui ma questa volta non sa di chi siano quegli occhi e non solleva lo sguardo da terra, non discosta gli occhiali e nemmeno cerca di capire cos’abbia intorno, prosegue senza fretta il suo cammino e si chiude in un guscio di pensieri.
Giunto al ristorante, entra e viene accolto dalla gentilezza e dal calore del personale del locale.
Raggiunge il tavolo e dopo i saluti si avvicina a Ninetto e con voce bassa gli dice:
“Ninè, arrivando qui a piedi non avevo il coraggio di guardare in faccia la gente”
“A Pa’ ora stai qua, stai con noi. Ma chi t’ha guardato? Te l’ho detto Pa, se te danno fastidio je mollo du’ pizze ‘n faccia!”.
Ride, ride di gusto. Quel modo diretto di affrontare la vita e quella spontaneità sono le prime qualità che aveva riconosciuto nel suo amico.
Cenano e il cuore si sbrina, almeno temporaneamente. E’ fra i suoi più cari affetti e la genuinità di quel sentimento gli nutre le fibre.
Sul finire della serata, giunto il momento dei saluti risale quell’angoscia ormai così familiare e il dolore presto muta in febbre.
Ha fretta di congedarsi, vuole andare via, a fine pasto saluta i commensali e dice:
“Ciao Ninè, io vado”.
“A Pa’, ‘ndo vai, sta’ qua, nun te ne annà. Se vòi annà te porto io a casa. Nun me va che vai via così”
“non vado via, vado a lavorare, ho una sceneggiatura da finire. Non ti preoccupare, vai a casa con la tua famiglia”
“A ‘Pa, ‘ndo vai…te ce porto io a casa”
“No, stai qua, tu resta con la famiglia. Ciao”.
Risale sull’auto e s’avvia verso l’ora più buia, quella fra 1 e 2 novembre 1975.
Riccore quest’anno il cinquantenario dalla morte di Pier Paolo Pasolini, il racconto liberamente ispirato è un tributo al ricordo dell’uomo, del regista, dello scrittore, del poeta.
“Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine.” PPP
Pier Paolo Pasolini – Bologna, 5 marzo 1922O – Ostia, 2 novembre 1975.