Lo spessore di Franco Basaglia non si esaurì nella sua monumentale grandezza di psichiatra, umanista e intellettuale ma proseguì nella sua capacità di tradurre nel concreto, con iniziative sociali, i suoi ideali.
Da rappresentante delle istituzioni si mosse dall’interno cercando, di volta in volta, di trovare risposte alle istanze dei pazienti e soluzioni praticabili che offrissero nuovi scenari e dessero volume plastico alle sue idee.
E’ importante ricordare che nei padiglioni delle strutture manicomiali erano ricoverate, insieme ai casi di disagio più profondo, persone che avevano vissuto situazioni di fragilità temporanea come depressioni post-partum o che avevano subito un momentaneo appannamento del tono dell’umore. Non solo, nei manicomi trovavano dimora bambini che vivevano “il disagio” della povertà.
Franco Basaglia si impegnò a sradicare la condizione di miseria cucita sulla pelle dei pazienti meno abbienti perché soluzioni più rispettose e meno invasive venivano offerte, quanto meno come alternativa, alle fasce più ricche della società.
Molti detrattori di Basaglia gli rimproveravano una presunta impostazione ideologica incapace di rispondere alle esigenze di trattamento terapeutico nei pazienti più problematici e una sostanziale indifferenza alla necessità della scienza di sperimentare cure che potessero evolversi e migliorare proprio in direzione della migliore qualità di vita dei pazienti.
Franco Basaglia non rinnegò mai la necessità delle cure, anzi, sostenne che un valido trattamento farmacologico fosse alla base del miglior inserimento sociale dei pazienti. Naturalmente la terapia per essere considerata tale doveva orientarsi al supporto delle facoltà mentali e non nell’annientamento della coscienza. Il punto di rottura che Franco Basaglia stabilì con il passato era la sua profonda convinzione che la “relazione” fra persone fosse elemento imprescindibile del “trattamento”, il “dialogo” fra medico e paziente, fra dentro e fuori degli spazi di cura, fra corpo e coscienza, fra malattia e guarigione erano il centro della cura, la più importante “terapia”.
Il riconoscimento di uno spazio che fosse vissuto da corpi e non da oggetti, dove fossero stabilite misure personali di distanza e vicinanza, dove fosse libero il movimento, dove l’attività fosse esercizio delle facoltà mentali, dove la connessione fra esseri umani fosse la base del tappeto di relazioni che costituisce una società.
Franco Basaglia valorizzava il loro fattore umano (di cui ogni creatura senziente è portatrice “sana”) e consentiva la miglior realizzazione delle piene possibilità di guarigione/sollievo del paziente.
Non solo immaginò di ridare dignità ai degenti, di aprire le “gabbie” in cui erano tenuti in cattività, ma si adoperò per consentirgli di realizzare una concreta possibilità di integrazione con la società civile. Straordinariamente emblematici del pensiero che animava Franco Basaglia e della sua capacità di rendergli forma nel concreto sono le esperienze a cui diede vita e che in ogni ambito segnarono un primato.
In cima a tutte le iniziative fu di gran lunga la più straordinaria la costituzione, in data 16 dicembre 1972, della “CLU Cooperativa Lavoratori Uniti”, fondata da 28 persone: due sociologi, due psicologi, cinque infermieri, un assistente sanitario, due medici e sedici privati che avevano tutti lo stesso indirizzo di residenza: via San Cilino 16, Trieste. Questa nuova formula di consorzio di persone finalizzato al riconoscimento del lavoro ebbe il merito di portare un primato in Europa, quello della realizzazione della Cooperativa sociale e in Italia di aver anticipato la formula delle Cooperative a scopo di inserimento lavorativo rientrando infine nella denominazione di “Cooperative sociali di tipo B” con la legge 381 del 1991.
Il primo scoglio che Franco Basaglia dovette affrontare nel suo intento di costituire la cooperativa fu la condizione di internati dei suoi pazienti/lavoratori. L’ingresso in manicomio coincideva per ogni individuo con la privazione di diritti civili e politici, e l’impossibilità di esprimere una qualsivoglia volontà. Giuridicamente erano soggetti incapaci di intendere e di volere. Solo attraverso una nuova formulazione degli attori che costituivano la Cooperativa (ossia l’inserimento all’interno dell’atto costituente di soci che fossero giuridacamente idonei e sensibili) e una definizione più puntuale delle attività finalizzate al guadagno che svolgeva l’associazione Franco Basaglia riuscì, in qualità di Presidente onorario, a ottenere dal Tribunale di Trieste, con un Decreto del 27 gennaio 1973 il riconoscimento della cooperativa e, successivamente, a far registrare nel “Registro Regionale delle Cooperative” l’iscrizione da parte della Regione della cooperativa in data 23 marzo 1973.
Ancora una volta fu protagonista di una importante riforma pubblica attuata nel nostro Paese.
Alle donne e agli uomini degenti che svolgevano attività presso il manicomio veniva riconosciuta la dignità di lavoratori ed un piccolo reddito, un incentivo concreto alla possibilità di rendersi autonomi e realizzare una possibile prospettiva di vita all’esterno dell’istituzione psichiatrica. Era l’impulso iniziale ma fondamentale per una futura eventuale espressione di autonomia, un incentivo che permetteva di riconoscere un cammino.
La seconda iniziativa straordinaria fu la realizzazione dell’opera “MARCO CAVALLO”, del 1973.
L’opera fu eseguita all’interno di un padiglione vuoto dell’Ospedale, il Padiglione P poi rinominato Laboratorio P, grazie al contributo di Vittorio Basaglia (artista affermato, docente all’Accademia di Urbino e all’Accademia di Belle Arti di Venezia e cugino di Franco), di Giuliano Scabia, Federico Velludo, Ortensia Mele, Stefano Stradiotto, e dell’impegno e della fantasia dei pazienti. Fu un’opera corale nata grazie all’intervento fattivo di tutte le persone che, a vario titolo, frequentavano o viveno nell’ospedale di Trieste.
L’ispirazione che diede vita alla realizzazione della scultura in carta pesta, rappresentante un cavallo di quattro metri, di colore blu, fu la presenza molto amata di Marco all’interno dell’Ospedale. Marco era il cavallo che rendeva servizio trasportando su e giù dal colle la biancheria e il cibo per i pazienti. Giunto a fine carriera il suo destino era il macello. Le donne e gli uomini degenti in ospedale, venuti a conoscenza di ciò che attendeva il loro destriero fecero appello al loro Direttore affinchè intercedesse per lui e gli salvasse la vita. Fu così che Franco Basaglia si rese portavoce dell’istanza dei suoi pazienti ed ottenne dalle istituzioni che Marco non fosse macellato e che potesse rimanere nell’ospedale. Visse gli ultimi anni della sua esistenza da pensionato nel giardino del San Giovanni.
Marco Cavallo fu il pretesto attraverso il quale Franco Basaglia portò all’attenzione delle istituzioni il valore del riconoscimento dei diritti di ogni essere vivente al di là della sua utilità, della sua funzione, ed altrettanto sottolineò come la lotta dei suoi pazienti ricalcasse la medesima esigenza di rivendicazione della loro dignità di uomini al di là dello stigma della malattia.
La scultura, che nella sua pancia custodiva lettere e scritti dove erano riportati i sogni, le speranze e la poesia dei ricoverati fu esibito nel febbraio 1973 al pubblico e il suo viaggio dall’”interno” all’”esterno”, dall’ospedale alla società civile, rappresentò metaforicamente il viaggio che realizzava l’integrazione fra i malati-dentro e la società-fuori.
Franco Basaglia è una delle personalità più rilevanti e straordinarie dell’ultimo secolo ed è ancora oggi fonte di ispirazione per tutti quegli uomini che sognano e combattono per la libertà e per una società più equa.