Al 7 settembre i test effettuati riguardavano 52.224 persone. A oggi i positivi al test anticorpale sono 478, pari allo 0,9% (persone che hanno ‘incontrato’ il virus, ma non c’è evidenza della malattia). I positivi al test anticorpale vengono sottoposti alla ricerca del virus con test HCV-RNA e risultano positivi il 18% (se solo sui maschi è pari al 22% solo sulle femmine il 16%).
Ma in quale modo abbreviare il percorso di Test&Treat del paziente complesso? Ranieri ha spiegato che “il fatto di abbreviare il percorso vuol dire ridurre assolutamente il numero di visite mediche, il numero di incontri del paziente con i sanitari. Quindi, innanzitutto, può essere abbreviata la durata del percorso che porta alla diagnosi, anche in alcuni casi, addivenendo al trattamento soltanto utilizzando la risposta dei test anticorpali dell’Hcv-Rna, il calcolo di alcuni punteggi che studiano la presenza di una cirrosi che richiederebbe l’esecuzione di una ecografia epatica prima dell’inizio del trattamento. Il criterio 12 Aifa permette di iniziare il trattamento anche in assenza di questi esami e questo è un altro motivo di abbreviazione, di accorciamento dei tempi per l’inizio del trattamento. Quindi, iniziare comunque anche al di là di conoscere il genotipo del paziente, la situazione epatica, a meno che non si dubiti la presenza di una cirrosi”.
“L’altro modo per accorciare- ha continuato Ranieri- è quello di ridurre al minimo possibile gli incontri con il medico, ovvero semplicemente all’inizio del trattamento, alla prescrizione e poi al controllo dell’esito, cioè 12 settimane dopo la conclusione del trattamento stesso. Nelle tappe intermedie, a meno che non siano richiesti prelievi ematici, ovvero cirrosi o altre situazioni, può essere svolta questa attività anche da altre figure, ad esempio l’infermiere, che consegna i farmaci e controlla l’eventuale presenza di effetti collaterali per informare il medico”.
All’evento ha preso parte anche il Dottor Marco Riglietta, Direttore Medico, S.C. Dipendenze- ASST Papa Giovanni XXIII, che si è soffermato sulla possibilità di raggiungere una politica di Point of Care presso i Servizi per le Dipendenze del territorio.
“È auspicabile – ha affermato – che si raggiunga una politica del Point of Care per due motivi: per la popolazione che afferisce ai Ser.D., perchè rappresenta il serbatoio dell’infezione da Hcv. Per la tipologia di presa in carico che I servizi hanno con i pazienti, che è una presa in carico prolungata, multidisciplinare, che permette una relazione significativa con i pazienti. Risulta, quindi, più facile agganciarli e gestire diagnosi e trattamento all’interno dei servizi. Direi, quindi, che è aupicabile”.
In merito alle difficoltà che emergono nel collaborare con diverse aziende sanitarie, Riglietta ha poi informato che “all’interno della stessa azienda sociosanitaria, le difficoltà che possono esistere esistono sempre e soltanto in relazione ai carichi di lavoro e alla disponibilità di risorse umane. Ci sono sicuramente servizi molto più in crisi in termini di personale presente, medici, infermieri ma anche altri operatori e servizi che, invece, sono adeguati da questo punto di vista. Le difficoltà sono queste”.
“All’interno della stessa Azienda- ha concluso- le relazioni con altri servizi sono di solito già consolidate, sia con i laboratori di analisi, sia con i reparti di malattia infettiva. Relazioni che sono nate negli anni Ottanta con l’epidemia da Hiv, relazioni di solito ben consolidate con le epatologie e le gastroenterologie. In regione Lombardia, più o meno tutti i servizi hanno dei percorsi strutturati o meno strutturati ma con i colleghi degli altri reparti”.